Lo si chiama “inconscio”:
è il pensiero stesso nell’infelice condizione del suo soggetto, grammaticalmente “io”, coatto a rispondere, se interrogato, con la nota formula “non so, non c’ero, se c’ero dormivo”:
però nell’ultimo pezzo c’è la piccola immensa ammissione del sogno (ce ne sono altre).
Fin qui l’agente del pensiero viveva sotto una copertura iperconvenzionale, quella della virtù privata dell’omertà detta “coscienza”, omissione e sistematizzazione.
Gli resta da passare alla virtù pubblica della verità soddisfacente, senza angoscia, non ostile e senza nemici.
giovedì 13 ottobre 2016