LA BANALITÀ DEL MALE PERVERSO

Ho così appena completato il titolo di Hannah Arendt, La banalità del male.

Adolf Eichmann con gli altri capi nazisti era contemporaneo, ma “alla grande”, di quella Psicologia che stava conquistando il mondo, ed eccoci qua.

In particolare essa, annullando la contraddizione tra aggressività e odio (A e non-A invece di A non-è non-A), banalizzando la loro distinzione cioè consentendo che la prima sostituisca nel pensiero il secondo, consentiva a Eichmann di considerarsi moralmente puro secondo la purezza kantiana, perché lui sapeva di non essere personalmente aggressivo contro gli ebrei cioè antisemita.

L’aggressività (l’antisemitismo nel caso) è passionale e interessata, ciò che la morale kantiana esclude nella sua “purezza”:
rendendo virtuosa la sua assenza, questa morale oscura l’odio in quanto logico (odium logicum [1]), algoritmico, teorico, anaffettivo, e infatti il genocidio degli ebrei non ha analogia con un pogrom, è stato un costrutto puramente logico e poi organizzativo ossia la specialità di Eichmann, che vi si è applicato con tutta la sua funzionariale ragion pura messa in pratica.

Si può capire che non ci siano stati nazisti pentiti del loro Nazismo:
infatti come pentirsi di un agire puro, spassionato e disinteressato?

Hannah Arendt, pervenuta come nessun altro a cogliere la banalità del male, si è arrestata quanto al cogliervi la banalizzazione perversa della contraddizione.

Ma questo è un peccato di tutta la modernità, che ha santificato non solo Kant ma tutta la Trinità perversa moderna, Pascal Kant Kierkegaard.

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[1] L’odio è una forma del pensiero, vedi il Seminario Odium logicum del 1986-87, dei tempi in cui “Il Lavoro Psicoanalitico” non era ancora stato sussunto nella “Società Amici del Pensiero” (è reperibile con questo titolo nel sito di Studium Cartello). Esso è compatibile con il sorriso sulle labbra e le buone maniere.

martedì 15 aprile 2014

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