Il titolo di questo articolo, La bellezza del dolore [1] , è un ossimoro:
il dolore di cui si parla è quello dell’amore in Petrarca, l’innamoramento o “rapporto tradizionale a due”.
L’autore ha appena tenuto, in agosto a Modena, una lettura su “Amore e nevrosi nel Canzoniere”:
dice che “il desiderio amoroso è fonte di nevrosi”, “il desiderio stesso è peccaminoso” perché “la sua irraggiungibilità è un tormento e anche semplicemente provarlo è un peccato” (notevole l’introduzione della parola “peccato” in un autore al di sopra del sospetto di pretismo predicatorio).
Continua dicendo, a proposito del più noto sonetto petrarchesco Solo et pensoso, che “nel caso descritto da questo sonetto la solitudine è uno stato patologico”.
Parla poi della “interiorità spaesata” del sonetto come di “accidia”, o melanconia (quella poi di Dürer).
Parla come me (ma non cerco di accaparrarmelo).
Si capisce perché Freud è rigettato dalla Cultura:
è intellettualmente inaccettabile che abbia detto (e dimostrato) che la melanconia, l’antica accidia, è la forma generale o discorsiva dell’odio.
Ho riservato la parola “amore” al regime dell’appuntamento, quello in cui l’altro viene con ogni modalità del venire:
se Laura non viene è lei a perderci (Laura e Petrarca sono un duo melanconico).
C’è un infinito melanconico, anzi l’infinito è melanconico come infinito è il desiderio di Petrarca moderno come il nostro.
Uno psicoanalista – ma non dovrei più parlare così, dovrei dire semplicemente una persona di buon senso – vuole che decada l’ossimoro di partenza, in cui tutti siamo stati invischiati.
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[1] Intervista a Marco Santagata, petrarchista e dantista, La Repubblica sabato 11 agosto.
venerdì 21 settembre 2012