FARE TESORO

É una delle espressioni linguistiche (linguistiche non matematiche) che fanno parte del grano delle lingua:
poi c’è la zizzania della lingua, il “Simbolico” che parassita il grano, il cielo infernale delle espressioni linguistiche dell’invidia
(so di essere l’unico ad avere detto che cosa è il “Simbolico” lacaniano, o il Simbolismo junghiano).

Designa la vita del regime dell’appuntamento, che è il mezzo dell’acquisizione legittima ossia ereditaria senza necessità che prima si produca il caro estinto.

Poiché vedo poco regime dell’appuntamento, non proprio niente ma tracce, potrei capire l’obiezione che non c’è più alcun tesoro da fare, che non ci sono più materie prime o almeno primarizzabili:
questo non è un gran che come neologismo, intendo solo che non conviene perdere tempo con l’originario, con la nostalgia che c’è solo per il mai esistito (come per l’infanzia felice), perché il primario è sempre secondario ossia è un’elaborazione prodotta per rendere possibile un’elaborazione successiva.

Faccio tesoro di ciò di cui non può esserci furto [1] perché non può essercene proprietà:
è almeno il caso del pensiero, la cui esistenza è la proposizione come proposizione di un atto
(occorre la patologia per credere di avere la proprietà privata dei miei pensieri).

Mi sono recentemente imbattuto nella “corrispondenza (d’amorosi sensi)” di Foscolo, che mi ha ricordato quella di Swedenborg:
ma l’amore non è cor-rispondenza, è co-incidenza intenzionale di proposizioni, la seconda intenzionata all’appuntamento con la prima:
l’inferno è lastricato di buone intenzioni senza proposizioni:
nell’amore si tratta di logica.

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[1] Lo spunto per questo articolo mi è offerto da due libri sulla pirateria, il primo è di storia, il secondo è un romanzo.

lunedì 5 marzo 2012

 

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