LASCIATE OGNI SPERANZA

Sabato domenica 11-12 febbraio 2012
in anno 155 post Freud amicum natum

 

“Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate” (Inf. III, 9):
l’ha scritto Dante sulla porta dell’Inferno, ma ha sbagliato perché doveva scriverlo sulla porta del Successo.

Un imprenditore non spera, imprende.

Se la speranza è attendere da un altro, è virtù l’attendere o sperare sì ma solo quanto-basta, giusto-giusto, e solo se l’altro ne ha già dato motivo, anche con qualche anticipo esemplare:
come per l’amore, anche per la speranza l’offerta precede la domanda e la crea:
tutte le nostre patologie, tutti i nostri malesseri economici-sociali-politici, dipendono dall’assoluto della domanda non relativa all’offerta:
il nostro mondo non offre: solo speranze (“sogni”).

Ho già scritto che il vizio, non meno personale che politico, è attendere dalla Politica comunemente intesa nella modernità (legislativo, esecutivo, giudiziario più o meno autonomi) più del 5%, ossia una percentuale fin troppo concessiva  rispetto all’effettiva realtà politica delle nostre vite associate:
attendere di più è la concezione paterna, delirante, querulomane dello Stato [1]:
leale come sono a Monti, spero in lui per un certo % di quel 5%.

I lacrimanti-precanti-urlanti-speranti di tante manifestazioni fanno parte della crisi, sono mendicanti di spiccioli.

Da un altro si può sperare non la vita ma la vitamina, che è molto meno del 5%:
gli amanti farebbero bene a canzonarsi a vicenda chiamandosi “vitamina mia!”, o sale:
tutti i Paradisi proposti sono insulsi

Ho dalla mia l’autorità indiscussa de Gesù, che è indiscussa solo perché nessuno l’ha mai tanto preso sul serio da discuterlo (non si discute con i pazzi):
egli non spera in “Dio”, perché nel suo pensiero“Dio” è soddisfatto solo nella prospettiva di diventare un uomo:
il che significa che non-spera in un colpo di Dio come si dice “colpo di fulmine”, bensì in un’impresa in società con altri uomini.

Freud ha dovuto lasciare ogni speranza, e anche J. Lacan l’ha lasciata ma meno pacificato, e anche noi dovremmo lasciarla, senza illusione e senza disincanto.

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[1] Ne dirò qualcosa di più quando avrò terminato l’articolo cui ho rinunciato ieri per avere dato retta al mio umore.
Della concezione paterna dello Stato scrivevo tanti anni fa nel mio La tolleranza del dolore. Stato, diritto, psicoanalisi, Milano 1977, pubblicando il saggio di H. Kelsen, Il concetto di Stato e la psicologia sociale, scritto per la Rivista Imago, fondata e diretta da S. Freud, 1922, 7, 2, 97-141.

 

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