Lo diceva già duramente Dante con quella sua luminosa chiarezza che acceca la vista:
“Amor, ch’a nullo amato amar perdona,” (Inferno V, 103)
che ha lasciato tutti ciechi, anche i migliori, sull’evidenza che non c’è perdono (nell’“amore”).
D’innamoramento Dante si intendeva, e parlava dell’amore senza pietà.
Del resto anche l’amor cortese non è molto… cortese.
É quell’amore che “ratto s’apprende” (V, 100) come si dice furto con destrezza, o anche contagio, attaccamento, come uno che salta addosso o soffia sul collo.
Dante ha avuto la sapienza di collocare l’innamoramento all’inizio dell’inferno, e ne aveva ben d’onde:
lui, diversamente da noi, non aveva ancora fatto mente locale che inizia dall’infanzia.
Sfugge che “Amor”, il “Dio malvagio” dei Greci, nel suo essere millenariamente indiscusso, esercita la sua presenza come un’Istituzione più incrollabile di altre:
romanzo, poesia, trattato d’amore, canzone, libretto d’opera obbediscono all’Istituzione, che nella sua onnipotenza ha questo di letteralmente stupefacente:
non esiste, dunque non può neppure cadere come l’Impero romano:
la Filosofia dell’Oggetto avrebbe tutto da imparare.
Questa Istituzione è paragonabile nella sua indistruttibilità solo alla Religione, con la quale infatti fa coppia non dichiarata.
Per avere liquidato questa coppia, facendone una terna con l’ontologia greca, Gesù poteva soltanto venire giustiziato, e peraltro si è continuato così ininterrottamente (Amicizia del pensiero e mia vicenda cristiana, sabato-domenica 13-14 novembre).
Nella sua mancata vigilanza la Storia − del cristianesimo − ha ahimè “salvato” l’innamoramento trasferendolo in “Dio”, e perfino teorizzando-teologizzando questo trasferimento (la violenta caritas di Riccardo di San Vittore).
Devo le mie scuse a Dante, per non avergli riconosciuto subito che sull’“amore” aveva detto il peggio quanto me sette secoli prima di me:
lui però non vi aveva riconosciuto il “narcisismo” di Freud, lo scarrafòne isolato o accoppiato-“innamorato”.
mercoledì 17 novembre 2010