Ieri c’è stato il mio, sorte comune.
Ad esso ho sempre collegato il mio nome, prima che all’onomastico, avendo saputo presto che è alla nascita che il nome viene conferito.
Da bambino ho acquisito una discreta conoscenza biblica, e ho appreso subito con piacere che Giacomo era Giacobbe:
il piacere si è accresciuto dal sapere poi che foneticamente era Iakob, Yaʻqūb, Jakob, e non quei nomi mollaccioni:
e mi è ulteriormente piaciuto apprendere che egli era stato rinominato Israele cioè forte con il Signore.
Sull’onda lunga di questa forza, abbastanza presto ho fatto sapere al Signore che di “Dio” non mi importava un fico:
mi importava che “Padre” avesse significato, quello di avere un figlio giuridicamente omologo cioè erede, che a sua volta significa possesso legittimo con annesso godimento libetale.
Naturalmente non mi importerebbe un fico neppure di Padre e Figlio, se ciò non significasse un principio universale di eredità, e non una faccenda intima tra divin Babbo e Bambino.
Mi fermo a questo telegramma, che invio anzitutto a coloro che mi hanno mandato i loro auguri.
venerdì 5 novembre 2010