I MORTI

Sabato domenica 18-19 settembre 2010
in anno 154 post Freud amicum natum

 

Ero ventenne quando ho conosciuto e appreso a memoria una frase di Agostino a proposito dei morti:
ne sentivo un’intensità in cui qualcosa mi dispiaceva, e più tardi ho afferrato che cosa ossia l’emozione che mi produceva, contestualmente all’afferrare che non era una faccenda di fede o non fede.

Ecco la frase:

“I morti non sono degli assenti, sono degli invisibili:
essi tengono i loro occhi pieni di luce
fissi nei nostri pieni di lacrime.”

Non mi piacciono le emozioni, anaffettive e s-pensierate quali sono ossia patologiche, preferisco vivere di affetti felicemente coniugati con il pensiero (la patologia, osserva Freud, è divorzio affetto/pensiero).

Non mi piace che qualcuno muoia, ma una volta successo lo voglio morto, così come io stesso non desidero essere un non-morto ossia di peso per i superstiti:
− è ciò che significa “lutto”, negato dalla melanconia che “vive” di morti viventi, e ne produce altri −,
e se per avventura tornasse vivo vorrei che mettesse gli occhi da un’altra parte, non mi va che mi fissi, lo ha già fatto fin troppo prima:
non voglio l’incubo di “occhi di luce”, brrr!:
non voglio essere fissato specialmente se piango, già da bambino ero come la Rachele biblica che non voleva essere consolata.

Se si desse qualcosa di simile a una resurrezione,
− che per parte mia non mi metto nè a desiderare né a respingere:
potrei sì prenderla in considerazione ma solo come offerta a ragion veduta, perché non potrei considerarla appetibile se sospettassi che potrebbe ricominciare tutto da capo −,
vorrei persone a posto, non gli spostati di prima, spostati specialmente nel fissarmi come oggetto (oggetto a lo chiamava J. Lacan, sembiante fasullo e angoscioso) della loro Idea patogena:
e se “Dio” esistesse con buon senso, non vorrebbe venire fissato (“contemplato”) per l’eternità.

Non per questo desidero che sparisca la memoria di come è andata,
− sia quella di malefìcî sia di eventuali benefìcî che ne siano venuti −,
e ciò perché la salute non è uno stato originario ricostituito ma si costituisce poi per differenza, cioè è il prodotto di un lavoro di guarigione (è ciò che significa “salvezza”).

Se li rivedrò, i “miei cari” o meno cari, li riconoscerò grazie a questa memoria, senza più la puerilità perversa con cui mi hanno fissato chi più chi meno:
se ci sono “santi” è perché non fissano, o sequestrano, non “vivono” in noi per i loro debiti di vita:
chissà, potremmo combinare qualcosa di buono cioè avere un rapporto decente (economicamente), “buono” perché decente:
in latino “decente” significa conveniente, non una tipologia di comportamento, e noi siamo indecenti per averlo dimenticato.

PS

Mi piace questo articolo, fa parte dei tanti sassolini grossi così che tolgo dalle scarpe della mia vita.

I pensieri da bambino restano i migliori:
quando mi portavano al cimitero dai nonni, con gli amichetti giocavo a nascondersi tra le tombe, sembravano fatte apposta.

 

 

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