Precedono l’articolo di ieri (“Tale è lo sgomento …”) e quello ivi ricordato (“Permesso?” di giovedì 27 maggio).
La frase di J. Lacan menzionata ieri termina con: “è il caso della psicoanalisi”, ma io ormai concludo la sua conclusione in quest’altra: è il caso del diritto,
perché ordino la psicoanalisi (il divano, la tecnica psicoanalitica) come caso particolare del Regime dell’appuntamento in quanto regime giuridico, giuspositivo, a sovranità individuale superiorem non recognoscens.
Proseguo con l’apertura di campo offertami da un recente scritto di Pietro Rescigno [1], di cui profitto senza approfittarmene:
“[…] registrare le acquisizioni all’area della giuridicità di fonti produttive diverse dallo stato” [sott. mia]”:
ne colgo occasione per introdurre, poverissimamente, quella fonte di cui da anni non faccio che avere cura, o coltivazione.
Lo sgomento suddetto − una delle vesti o movenze che l’angoscia può assumere − è quello che si produce proprio allo scoprirsi capace (“potere”) in quanto capace di diritto e in ciò insindacabile fonte di potere [2], e con la prerogativa propria del diritto, l’universalità senza necessario potere coercitivo (la “violenza legittima” kelseniana).
Al Regime dell’appuntamento si oppone, come fonte dello sgomento, l’opposto Regime, imperativo non normativo, che è stato chiamato (sto correndo) “universo malato della colpa” e in precedenza, col noto neologismo freudiano, “Super-io”, il cui Super sloggia l’io da casa sua, il pensiero anzitutto:
è quel Regime anarchico e contraddittorio che ci fa tutti dei Re Lear, abdicanti alla sovranità, benché ancora con pretese:
pretese che non baderanno a spese, proprie e altrui, patologiche e criminali, pur di asserirsi parzialmente.
Sto ancora trattenendo un Saggio esplorativo dell’universo legale e reale del Regime dell’appuntamento
− che occupa già parzialmente ma fattualmente il nostro mondo, dunque non sto teorizzando −,
oggi mi limito nuovamente a suggerire alla fantasia di ognuno di costruire un catalogo di tutte le possibili esperienze descrivibili con la parola “appuntamento”, a ogni livello e di ogni varietà e qualità e estensione sociale, senza risparmio:
una mia tesi è che non si troverà alcun caso dell’esperienza (economica, politica, amorosa, …) che possa a priori esserne esente, ma che al contrario siamo noi a non autorizzarci ad esso, a priori, nell’universo malato della colpa.
Per intendere occorre non trascurare che “appuntamento” significa affari quale che ne sia il contenuto e la specie, anche amorosi, e che ciò comporta una concezione economica dell’esperienza in generale (Freud):
ed è facile osservare che quasi mai si pensa l’amore come affari:
che disastro!, come “I disastri della guerra” di F. Goya.
Posto un qualsiasi appuntamento, cioè un patto convenuto e non comandato, esaminiamo il caso in cui uno dei pattuenti ne s-venga, nelle cento modalità dello s-venire a partire da quello materiale del non presentarsi:
dopo n s-venimenti il soggetto infrangente il patto ne verrà imputato (giudizio) per il danno procurato, ossia per un illecito stante il patto, e sanzionato (non ci sarà perdono nel senso stupido di omessa imputazione), in altri termini c’è norma giuridica fin dall’inizio del patto.
Due le specie di sanzione:
quella vendicativa, proibita dal diritto statuito corrente non perché “cattiva” ma perché non giuridica, infatti a essa potrebbe venire applicata un’imputazione e così via all’infinito analogamente all’infinito processuale della causalità naturale, che non conosce un punto finale mentre il diritto lo vuole (“finita lì”);
e un’altra, adeguata all’illecito e non imputabile, ossia punto finale del processo, ma quale sanzione?
L’ho introdotta facendomi precedere dall’invito a non ridere troppo in fretta:
infatti non la cogliamo solo per la dura cervice con cui insistiamo a concepire la norma come comando, avente come fonte un Potentato chiaro o oscuro, e così classifichiamo la scomunica come procedente solo da Chiese, Partiti o altre specie di potentato.
La mia risposta (descrittiva) è proprio questa, la sanzione giuridica amministrata per sovranità individuale, potere senza Potere, è la scomunica, sovrana perché superiorem non recognoscens (una sua espressione linguistica è “togliere il saluto”):
ma i Potentati, Chiese o Partiti e altri, non amano riconoscere questa fonte di diritto:
notabene, ho detto i Potentati e non il Diritto statuito, che nella sovranità individuale può trovare un alleato o almeno un interlocutore leale.
Chi esamini il suaccennato catalogo dei possibili appuntamenti non faticherà a osservare che questa sanzione, tutt’uno con la sua pubblicità, può essere più grave di certe sanzioni detentive, pecuniarie o corporali.
Mi arresto per il senso del pudore che mi prende quando procedo a una telegrafia così spinta.
Quando scriverò questo Saggio, articolerò in esso l’antica confusione sulle leggi giuridiche come comando, con l’altrettanto antica confusione sulla lingua come nesso parole-cose anziché come nesso parole-azioni:
ora, il nesso parole-azioni è proprio del diritto, ossia è il diritto la degna linguistica, e senza più bisogno di costituire questa come partizione disciplinare.
Almeno la sovranità di cui parlo fa il pensiero Istituzione, e la persona fisica già persona giuridica:
all’abdicazione a ciò corrisponde tutto ciò che usa chiamare “psicopatologia”, a partire dal’isteria come una tipologia dello s-venimento dall’appuntamento.
La prima novità freudiana è l’introduzione dell’individuo come fonte (Quelle) primariamente quanto alla meta (Ziel) non quanto all’oggetto (Objekt):
è come fonte che incontrerà già precocemente ogni ostilità.
Dunque, dalla mia estensione illimitata delle fonti produttive alla pensabilità di un comunismo giuridico:
non orientato sulle cose né sul modo di produzione delle cose (Marx):
la parola “produzione” è nella frase di Rescigno.
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[1] Che mi ha onorato giovedì scorso alla Feltrinelli Internazionale di Roma, vedi “Permesso?” di giovedì 27 maggio.
La citazione è tratta da: P. Rescigno, Pluralità di ordinamenti ed espansione della giuridicità, in: Fine del diritto?, a cura di Pietro Rossi, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 84-85.
[2] Più volte ho introdotto la distinzione tra potere come verbo e Potere come sostantivo.
É stato arduo discuterne con persone di lingua tedesca, perché la loro distinzione lessicale tra können e Macht non aiuta, idem in inglese tra can e Power.
Da millenni un’Antigone eterna ci mette fuori strada, con la torva modestia del ricusarsi a porsi come fonte di diritto,
giustificando così con il suo sanguinario sacrificio ogni possibile Potere: con Prometeo e Pandora si iscrive tra gli Eroi della Civiltà (il Kulturheros di Freud).
martedì 1 giugno 2010