Leggo oggi questa recensione (la Repubblica lunedì 28 giugno) di un recente libro sulla sovranità, A Star of England [1] di Enrico Gusberti, dove è anche ricordato un libro che mi è piaciuto e servito non più recentemente, I due corpi del re di Ernst Kantorowicz [2].
Annoto appena che vi si illustra specialmente la concezione shakespeariana della regalità, cui il redattore fa seguire il commento opportuno:
“La costruzione del monarca è al tempo stesso la costruzione dell’uomo” (non do la bibliografia del commento stesso).
Rammento soltanto
− dopo anni che parlo, non da solo, della sovranità e di questo tema come fondamentale in Shakespeare, come pure della sua distruzione in Calderòn de le Barca perché se il Re stesso dice che “la vita è sogno” allora non c’è sovranità −,
che Shakespeare fa veramente dramma, l’unico esistente, perché Re Lear è il dramma (di ogni uomo) dell’abdicazione alla sovranità come abdicazione da parte di un sovrano che nessuna forza a lui esterna obbliga a abdicare.
Anche Giulietta e Romeo è abdicazione alla sovranità nell’innamoramento, e in effetti la loro è una storia cretina:
cui lo stesso Shakespeare contrappone La bisbetica domata come sovranità riuscita.
Senza richiamare i tanti scritti non solo miei sul tema, propongo con nuove parole la tesi sempre sostenuta:
solo la patologia – Teoria o Idea – priva l’individuo della sovranità, competenza legislativa universale:
ha già abdicato quando professa la Teoria della contrapposizione tra singolo soggetto e Stato (povero Stato!, verrebbe voglia di dargli un po’ di … sussidiarietà), o dell’equilibrio tra particolarità individuale e Bene comune:
vecchia robaccia! però paludatissima, inossidabile.
Aggravo la mia posizione dicendo che la sola ragione che ho per apprezzare un po’ (poco, molto poco) il “diritto naturale” che kelsenianamente rifiuto, è questa:
ho appena trovato tale ragione in un comics dozzinale, nel quale in una popolazione superstiziosa etnograficamente segnata (per esempio i soliti Indiani buoni o cattivi del West), un segnale di off limits segnala minacciosamente a tutti di tenersi lontani dall’area che essa designa e delimita, ossia il Sacro:
è l’area di una miniera d’oro che nessuno desidera per censura, o superstizione, la miniera della fonte individuale della sovranità:
ogni psicoanalisi si scontra con questa superstizione.
Nessuno potrà accusarmi di essere un bravo ragazzo pio se dico che, prima di Freud, solo Gesù aveva abolito il male-detto Sacro:
solo ciò stabilito, sono disposto a riparlare del Santo (vedi già J. Lacan):
fine di quell’autentica porcheria che è l’ossimoro sacro-santo.
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[1] Enrico Gusberti, The Star of England, La concezione della regalità in Inghilterra e il mito di Enrico V, Bononia University Press, recensione di Carlo Galli.
[2] Ernst Kantorowicz, I due corpi del re, Princetown 1957, Einaudi 1989.
martedì 29 giugno 2010