Il compagno, insieme all’amore e all’amicizia, è il nostro insistente eterno fallimento.
Trentenni o quasi settantenni, nel post-comunismo si discute oggi con frivola seriosità della pertinenza dell’uso odierno della parola “compagno” (la Repubblica, lunedì 21 giugno).
Il compagno è ciò che al Comunismo non è riuscito, nella sua incapacità a concepire il compagno fuori dal momento militante come fretta (Freud) in ordine al fine imperativo:
in Marx, che pure resta tra le mie letture, esso manca nella prefigurazione stessa del Comunismo, dato che in questo l’operaio è rappresentato sì come libero di andare a pescare se gli va a genio, anziché recarsi al lavoro (Grundrisse), ma non come uno che intraprende e tanto meno con un partner, e “compagno” significa appunto partner per un profitto.
Di compagno, il Comunismo ne aveva non troppo ma troppo poco, poco-niente:
è a questo eccesso nel poco-niente che riporterei gli eccessi dello stalinismo:
dunque siamo rimasti degli stalinisti con la lacrima facile.
Intrapresa e partnership sono lasciate al regime anteriore, con la sua gamba di legno diversificata nella ricchezza della protesi (allora parliamo di protesi di classe).
Nella discussione allusa sopra sono vecchi sia trentenni che settantenni.
Quando il mai-compagno Massimo d’Alema in TV ha rifiutato questo appellativo, piuttosto avrebbe dovuto rispondere “Magari!”
Non sono certo fuori dai tempi quando promuovo l’amico o partner o compagno del pensiero:
Freud lo è stato e lo resta esemplarmente e, come applicazione particolare, ogni psicoanalista dovrebbe essere un compagno del pensiero almeno per definizione, alla quale rifarsi in ogni seduta.
martedì 22 giugno 2010