Conosco tanti, anche psicoanalisti, che sarebbero sconvolti all’idea che ci volesse Freud per cominciare a sapere qualcosa sull’amore, e anche questa è una notizia da prima pagina:
si tratta di non cercare lontano ciò che è vicino, a portata di mano.
Precedono “Giornanalista” del 26 marzo e i due “Tesi sull’esistenza dell’amore” appena precedenti.
Si tratta della scoperta che l’amore si tratta di mettercelo o porlo, positivamente.
Tre sono le specie di amore considerate da Freud:
1. “pulsione” come legame sociale universale, articolato in quattro articoli, implicante non-obiezione alla materia di esso (il cibo nella pulsione orale);
2. “Edipo” come nome del legame sociale universale, nell’ambito del precedente, legittimo quanto al pensiero, implicante non-obiezione a una contingente materia di esso (i sessi);
3. il trasporto amoroso, malamente detto “transfert”, nel legame sociale chiamato “psicoanalisi”, implicante non-obiezione alla materia fonica:
sono stato io a parlare di una “pulsione fonica” messa in opera da Freud nella tecnica psicoanalitica:
ho già fatto osservare che in un’analisi che va, accade nel dire ciò che non accade neppure tra gli amanti più confidenti.
Nei tre casi è in atto una norma positiva di non-obiezione di principio, ossia preliminare o presupposta:
“invidia”, mal-occhio, è il nome tradizionale e indovinato dell’ostilità a questa norma (cui Freud ha dato il nome “resistenza”).
Nei tre casi la meta è un profitto, o successo.
Risegnalo quella rilevantissima frase di J. Lacan che dava anche titolo a un suo Seminario (1976-77):
“L’insuccesso dell’inconscio è l’amore”, cui ho dato sviluppo in questo senso:
la psicoanalisi cerca di dare successo al pensiero quando è ridotto a “inconscio”, che è il pensiero stesso, e non una parte di esso, quando l’io è fuggitivo (vedi “Il fuggitivo”, 5 marzo), non Signore o titolare a casa sua:
in effetti l’amore è un lusso, cosa da Signori, non da “poveri ma − pateticamente − belli”:
i poveri non possono amare, e non sono affatto belli:
la psicopatologia è un caso interclassista di povertà.
L’amicizia per il pensiero, ragione della Società che ho appena fondato, è amicizia per quella norma, “normalmente” trattata con ostilità o indifferenza.
Il primato dato all’educazione è la forma generale dell’ostilità al pensiero.
Circa l’amore precedentemente e diversamente concepito, tutto è da ri-fare o meglio porre:
tanto da almeno sospettare che abbiamo (chi?, quando?) fatto male a inventarci la parola “amore”, come glossa al, anzi invece del, successo del pensiero:
con essa abbiamo voluto assicurarci un presupposto vuoto (ma ormai è fatta, e non faccio il terrorista della lingua).
Usa anche dire “volere bene” ma con il massimo errore, quello di prendere “bene” come dono:
può anche andare se “bene” significa che l’altro profitta di me, del mio lavoro anzitutto, contro il che si erge la generale obiezione di principio.
Tra le tante versioni dell’amore c’è “amarsi come fratelli”, quando sappiamo già che i fratelli si odiano, del che la Bibbia ci ha subito avvertiti:
Caino e Abele si odiano, sì anche Abele, che non ha fatto società con Caino, i loro poderi sono separati, niente economia di partner.
É chiaro che non manco affatto di una definizione:
questa è comportamentista, amore è trattamento, trattare bene:
poi si facciano pure dei distinguo nel comportamentismo.
Il Capo non fa amore, lo fa solo il caput di successo.
venerdì 9 aprile 2010