Non è un tram chiamato desiderio.
L’amore non è un sentimento, né un sentimento morale (A.Smith), benché tutt’altro che privo di sentimenti o affetti (emozioni consiglio di no, ma non ricominciamo).
“Amore”, se significa qualcosa e solitamente no, è una frase, una frase ben fatta, well formed logicamente:
la mia di freudiano è logica giuridica, con le sue inferenze.
Si constata che amore e lingua vanno male ambedue, insieme, con-patiscono (questo è il terra-terra dell’osservazione psicoanalitica):
dunque, “attento a come parli!” quando dici frasi come “Cara ti amo”, o peggio “Cara, ma io ti amo lo stesso” (orribile e stupido), o “Io amo i miei figli”:
di solito sono sgangheratamente false, e la cara e i figli lo capiscono al volo, con pessime conseguenze.
Una legge “divina” dell’amore?:
ma “Dio”, anche se fosse stato “Lui” a promulgarla, lascia a noi (“a immagine e somiglianza”) di inventarla anzi di porla, anzi di reinventarla e riporla, dato che l’amore come interpretato da millenni si era rivelato catastrofico:
e tutta la letteratura, la canzone, la nostra esperienza personale è lì a dirlo,
e nel modo più infernale la melanconica canzone napoletana, che nella sua istigazione alla nostalgia suggerisce il suicidio.
Che il top dell’amore sia dare la vita è solo il top dell’equivoco:
la storia dell’umanità ha visto molti eroi dare la vita per una causa, e volesse il cielo che non lo avessero fatto, come nel caso del giovane nazista morto in uno scontro con i comunisti il cui nome ha dato occasione per lo “Horst-Wessel Lied”, il più noto dei canti nazisti.
Ma per non riferirmi solo alla tragedia storica del Nazismo, mi riferisco a un’altra tragedia millenaria e quotidiana, quella delle madri melanconiche sempre dolorosae che brandiscono sulla testa dei figli la frase “Quando sarò morta capirete!” (o anche, non profumi ma balocchi).
L’equivoco sta nel prendere il “dare la vita” come rimetterci la pelle:
errore vistoso e volgare, applicato anche al caso di Gesù:
invece nel suo caso (almeno come pensiamo noi suoi credenti) ciò ha riguardato solo un breve benché antipatico intervallo di tempo:
Gesù non ci ha rimesso la pelle ma ce la ha messa, poi l’ha momentaneamente persa, per poi tenersela con il piacere di tenersela.
Chiamatelo scemo!, come pensano tutte le persone pie:
come dire che la Sindone non mi commuove gran che, il che non significa che io non abbia pietà.
Quando ho scritto la formula del pensiero di natura (S → A con quel che segue e precede) come pensiero giuridico fino alla meta del tesoro, ho appunto proposto la forma generale della frase dell’amore, esemplificandola con la parabola dei talenti:
definendo anche tale forma come la norma fondamentale del Regime dell’appuntamento, che dà il senso e il significato della parola “amore”:
privilegio personale (non “privato”) a vantaggio non scapito dell’universo, e senza “mano invisibile”:
nulla a che vedere con l’amore per l’“umanità”, con le sue lacrime isteriche indifferenti a morti e feriti.
Precede logicamente l’articolo di ieri, “La viltà della storia della psicoanalisi”.
mercoledì 3 marzo 2010