Ieri ho parlato di moralità a proposito dell’omicidio, definendola come partnership per la soddisfazione (lavoro, frutto, meta, soddisfazione):
il suo non è un campo di battaglia, non ha sagome e non comporta l’omicidio, e dunque neppure la proibizione di questo.
Di moralità si parla da sempre, ma sappiamo quanto basta per almeno sospettare che non è ancora iniziata, benché da sempre si sia cominciato a parlarne.
Proviamo a saltare nel piatto proponendone una definizione, intelligibile per ogni grado di acculturazione, nella direzione di un argomento tipico della modernità, la moralità a proposito di economia:
moralità è cibo in tavola.
Estendiamo la definizione:
moralità è cibo nello stomaco, anzi oltre il duodeno, cioè reso immune dal vomito provocabile:
dalla moralità ho dunque espunto sia l’inedia esogena che quella endogena.
In omologia alla moralità del cibo in tavola si è mosso Obama:
che certo non è così “comunista” da “sognare” che in essa yes we can:
ma si è esposto alla medesima infamante imputazione, quanto basta da proporla, in omologia minore, come salute assicurata per cinquanta milioni di americani che ne sono esclusi:
per questo non ha solo incontrato l’opposizione dei potentati sanitari, ma anche quella di una cultura americana che credeva di avere la morale assicurata (indipendentemente dalla morale di cibo e salute), fino a delirare di poterla esportare.
Come si vede sono con Marx nel rifiutare la moralità come iniezione o inspirazione di vitamine morali nella materia economica, e nel volerla invece come forma attiva della materia (“cibo in tavola”), forma e materia essendo distinguibili ma inseparabili temporalmente e spazialmente:
Marx era furibondo nei confronti delle iniezioni morali (inutili e complici dello status quo), e le nostre “sinistre” antimarxiste sono diventate preticelle:
ma non posso dire tutto, per esempio che forma non è organizzazione, o la domanda se la logica formale è organizzazione o forma.
Rincaro con Freud in due direzioni:
a. quanto alla moralità relativa ai sessi, la cui definizione non potrei mai proporre come “è partner in alcova” come il cibo in tavola:
ciò perché a differenza dal cibo il sesso non è un fabbisogno, così come non è un istinto ossia una delle specie di causalità, tanto meno naturale:
ma se il cibo è fabbisogno, non per questo è neppure lui istinto:
ho già annotato che non si mangia per vivere ma si vive per mangiare (“pulsione”), il che assolve al fabbisogno come con la mano sinistra.
Circa i sessi, le morali non sono mai pervenute alla moralità perché tutte ammettono (come asserzione o almeno concessione) fabbisogno e istinto sessuali, due credenze peggiori che quella negli asini volanti:
sono due credenze immorali nel loro sedare l’angoscia della domanda “ma perché far‘lo’?” (domanda che nasce immorale).
b. da cento anni in tutto il mondo, l’immoralità è sostenuta a testa alta, fin troppo alta, se solo si assume questa proposizione inconfutabile:
moralità è psicologia in tavola
– con un solo cuoco libero di associarsene un altro -,
ossia la moralità è competenza psicologica individuale, l’individuo essendo l’unica sede della psicologia:
questa sede continua a essere occupata da una potenza interna alla civiltà.
É in questa direzione che americanismo e comunismo
– una coppia freudiana che ho già valorizzato nel suo individuare una identica “fretta” in ambedue -,
sono stati identici tanto nella fretta che nel comune dogma, già platonico, che la competenza psicologica non esiste:
parliamo di immoralità psicologica civile (con strumentale pretesto di “scienza”).
Non potrei mai proporre ostilità per i “diritti umani”:
ma la loro storia ha occupato la terra terra-terra della competenza psicologica individuale.
Si tratta di “inalienabile” (linguaggio dei “diritti”) alienatissima competenza giuridica nell’ambito del permesso giuridico:
nel progresso civile questo ambito è stato progressivamente ristretto.
Milano, 25 novembre 2009