MARX NON É DI SINISTRA

Marx resta da leggere, da decenni non lo legge più nessuno:
da anni ne prometto un’antologia, ma come per altre cento cose me ne manca il tempo.

Non sono di sinistra come non lo era Marx:
ma allora era di destra?, ridicolo!, cose da Don Ferrante manzoniano (sostanza o accidente?)

Se Baden-Powell avesse già inventato il boy-scoutismo (nel 1907, Marx è morto nel 1883), Marx non si sarebbe certo risparmiato l’acidità del parlare della sinistra come boy-scoutismo di classe, la classe dei povericristi.

Elettoralmente, si osserva oggi che i povericristi bocciano i boy-scout delle classi povere.

Marx vedeva … rosso all’idea di sollevare le sorti della classi povere:
il cui lavoro è separato dal possesso del suo frutto (“alienazione”),
e tanto peggio se non hanno un lavoro da vendere semplicemente perché nessuno gli domanda di comprarglielo:
oggi si constata che il “lavoro socialmente necessario” si è ridotto, forse molto o moltissimo, chissà quanto? (il dopo-crisi non sarà quello del passato).

Marx voleva dei titolari del loro lavoro,
e come tali titolari e attori di un lavoro trascendente quello socialmente necessario (“rivoluzione”, generazione di una nuova-successiva realtà).

Come è andata lo sappiamo, o crediamo di saperlo (ne ho già detto la critica freudiana), e non vi torno sopra:
in ogni caso, la “Sinistra” di oggi è nata, negli anni ’70, in seguito alla severa cancellazione del nome di Marx dai monumenti della storia del movimento operaio.

Che c’entro io, piccolo freudiano, psicoanalista, amico del pensiero come condizione di Freud e della psicoanalisi?:
c’entro a partire dall’osservare la generale rinuncia umana (Verzicht), prima che al tesoro del frutto:
alla titolarità stessa del proprio lavoro produttivo, un lavoro di pensiero anzitutto.

Io sono comunista perché lavoro ogni giorno alla costruzione di una lingua (contro la distinzione lingua/linguaggio) comune:
che esiste nell’univocità, aut-aut, sì o no, non nell’equivocità del kierkegaardiano vel-vel:
vel la borsa vel la vita”, in cui una vita magra è conservata in cambio di una borsa vuota, o fornita a-pena a-pena:
oggi il boy-scout di sinistra milita per l’a-pena a-pena, e con la lingua di questo.

C’è poi, ma solo poi, una distinzione tra sinistra e destra:
la destra odia il pensiero e non lo tollera (“intellettuali!”, ovviamente di sinistra), con la sola ragione del torto, la peggiore ragione;
la sinistra ha pensiero, essa sì, ma a scartamento ridotto, melanconico (Dürer con Freud), o antigoneo:
naturalmente, anche la destra ha cercato di impadronirsi di Antigone, in una disputa senza fine che potrebbe anche finire come “Embrassons-nous!” nella tomba di Antigone.

La rinuncia come rinuncia al pensiero, o alla titolarità del lavoro, ha più modi:
cento volte ho detto che il primo è quello di Rossella o’ Hara (quello detto “rimozione”):
“ci penserò domani” all’infinito, come rinuncia al lavoro o alla titolarità del corpo:
la “rimozione” è solo rinuncia autogestita, non imposta da padroni esterni, e neanche dal “Destino”.

Questa rinuncia, che è rinuncia di massa, è fattoredi povertà nel capitalismo, anteriore a esso, indipendente dal capitalismo.

L’individuo umano astratto freudiano precede l’individuo umano astratto marxiano.

Da anni descrivo la povertà da rinuncia al pensiero con le tre categorie:
lucro cessante,
danno emergente,
lucro non emergente,
che è una descrizione della patologia a portata di ogni mano e di ogni contatore di cassa.

Inversamente, è patologia ogni stato soggetto a queste tre categorie, ossia psichiatria e psicologia cedono il posto all’economia.

Sarebbe interessante discutere
– ma chi saprebbe fare certe discussioni? –
se  sua volta il Capitalismo non sia asservito a questa generale e precedente rinuncia, sia pure a fini successivi di asservimento.

Siamo alla domanda di sempre:
perché il servo si è lasciato asservire?, e il povero impoverire?

La sinistra dei poveri obbedisce a una sorta di astratta ecumenica preteria mondiale (anche “laica”) che strimpella “amore” senza saper dire cos’è.

Su ciò gioco da tempo a carte scoperte:
l’amore è la parabola dei talenti (o delle mine), con produzione e tesoro,
ossia un’implicazione reciproca di economia e diritto che ha e ha solo sede individuale:
è a partire da questa san(t)a sede individuale che acquista senso e significato la parola “amore”, uscendo dal lamentevole e dal melanconico.

Forse si continuerà per tutti i secoli a negare l’esistenza del titolare di questo nesso di implicazione:
se esistesse sarei io,
ma la guerra mondiale sull’io continua:
in ultima analisi, è sull’io che sono freudiano.

É massimamente degno di nota un fatto:
che un tale titolare è capace di ogni dipendenza (Abhängigkeiten, o dipendenze, des Ichs, Freud) e insieme di ogni iniziativa o impresa:
ecco la definizione della modestia, o della sovranità
(di cui il “narcisismo” è il nemico pidocchioso, o invidioso).

Milano, 01 giugno 2009

 

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