Ovvero “le ragazze”.
Tutto questo giro di “ragazze” su suolo politico nazionale e rimbombo internazionale, dovrebbe interessarci anzitutto collettivamente:
parola che per me, non per altri, significa uno per uno, personalmente ossia nel pensiero (non ho detto “nella vita privata”):
interessarci sotto il profilo di una domanda, quale domanda?:
non “A cosa serve una donna?”, piacere, figli, casa, tappezzeria, “quote rosa” (un’espressione inventata da qualche sciagurato e legittimata dalla maggioranza linguistica, che è la maggioranza che conta),
bensì “A cosa serve un uomo?”.
A fissarsi alla prima domanda erano già stati i miei rispettati Padri della Chiesa, che davano la colpa alla donna salvo poi trovarle attenuanti generiche, salvo un’unica eccezione (sappiamo quale) ma solo per non avere fatto niente, avendo lasciato fare tutto a un Altro Sommo, santa scema del villaggio (o della piazzetta).
Ma tanti secoli dopo Hegel stava ancora fisso lì, dichiarando (“Fenomenologia dello Spirito”) che proprio non vedeva che c’entrasse la donna con la Città, salvo trovare eccezione nella sola Antigone (un’aggravante per Hegel), la quale in effetti non ha fatto niente, non ha sepolto Polinice, gli ha solo sparso sopra un filo di polvere (“simbolicamente”: bello!)
La “Storia” è sempre la stessa:
Eva ha mangiato la mela e l’ha trovata “buona”, ossia si è attenuta al principio di piacere:
non ha dedotto la bontà della mela da “Il Bene” ossia non l’ha colta dall’albero detto “Il Bene/Il Male” (era questa la proibizione, sensata ragionevole salutare),
e per di più l’ha condivisa con Adamo, fondando cioè il rapporto sulla mela non sul sesso, lasciando quest’ultimo libero per ogni possibile vicissitudine pratica o morale, contingenza.
Invece Adamo ha commesso, lui, il peccato originale, la viltà dell’intellettuale, la trahison des clercs:
onestamente interrogato (“Dove sei?”, non accusato) decade dalla posizione (“dove”), e cade nella viltà o irresoluzione della confusione tra “buono” cioè il giudizio (non c’è giudizio che di piacere/dispiacere secondo principio di pensiero), e “Il Bene” cioè l’Oggetto astratto che abolisce il giudizio:
segue per cattiva logica l’idea delirante “nudità”, ossia la fondazione del rapporto sul sesso.
Egli poteva servire (non è il “servizio” dell’amor cortese) il comune principio di piacere, invece ha introdotto il divorzio, il vero prodotto (di principio) del peccato originale:
“E’ stata lei!”
Quanti sono gli uomini che servono? (risponda ognuno):
questo servizio è l’unico dovere proposto, non imposto, dalla differenza sessuale:
un servizio cortese, non quello (mi ripeto) del non cortese anzi brutale “amor cortese”.
A merito delle “ragazze”, fa meraviglia che non siano tutte delle Furie in senso classico:
ma molte sfuggono a questa diagnosi (“formazione reattiva” amorosa).
Alle “ragazze” non piacciono le piazzette né, per la stessa ragione, i letti a due piazzette.
Nei secoli siamo ancora qui (“Dove sei?”), e la Storia politica nazionale e internazionale ci ha appena riproposto questa dis-topìa, dis-agio, in uno scenario patetico generale collettivizzante le quotidiane patetiche suburre.
San Paolo non ha risolto del tutto bene:
scrivendo “Nessuno ha mai odiato la propria carne” (Efesini 5, 29), mostrava sì di sapere il nocciolo della salute-salvezza, ma anche di non sapere che “odiare la propria carne” riempie il mondo:
è la psicopatologia, caduta del giudizio o principio di piacere:
aveva però l’attenuante di non sapere che nei secoli successivi la si sarebbe odiata sempre di più:
odiato quel pensiero che ama la propria carne.
Milano, 22 giugno 2009