La lentezza si presenta spesso, benché non solo né anzitutto, come vero e proprio sintomo (misurabile in quantità di tempo e danno):
risaliamo ora al principio, anche del sintomo.
Siamo tutti filosofi, anche nel sottosviluppo scolastico o nozionistico per non dire ignoranza belluina (comunque l’ignoranza umana è solo umana, niente di animale).
La lentezza
– sempre intellettuale, che nella motricità può svilupparsi come lentezza oppure fretta –
è l’entezza, intendo proprio l’ente dei filosofi.
C’è l’entezza quando si giudica l’ente non dai suoi frutti ma da sé
– ed ecco anche il “sé”, il “self”, il “Selbst -,
cioè quando si contravviene al detto e norma che “l’albero [l’ente] si giudica dai frutti”.
La lentezza è non partire da conclusioni raggiunte (le conclusioni sono frutti), cioè è non partire (S. Kierkegaard).
Tra lentezza e fretta (quella che Freud riconosceva comune all’americanismo e al comunismo), non è vero che in medio stat virtus (critica di Kant a Aristotele, “Etica nicomachea”):
il tempo
– del movimento: ecco il nocciolo della questione –
è regolato dall’appuntamento, si tratta di arrivare in tempo secondo il patto.
Il tempo della patologia è corruzione del tempo, fatto per non arrivare mai, obbedisce al comando “aspettami, io non vengo”, nell’isteria, nell’ossessione, nell’agitazione psicomotoria, nella catatonia.
Il tempo dell’appuntamento è arrivare in tempo, giusto-giusto, è giustizia:
è nel ritardo o nel non venire affatto che siamo degli ingiusti:
se esistesse un salvatore, arriverebbe in tempo, senza mentire facendosi valere come l’entezza dell’Ente.
É il problema della Rivoluzione, fretta o ritardo:
non che la Riforma abbia fatto meglio.
La psicoanalisi arriva in tempo, già nella prima seduta o primo appuntamento, è già e subito lì:
poi le si oppone l’entezza:
anche uno psicoanalista può prendersi come l’entezza, che trova espressione nel non parlare in tempo, giusto-giusto.
L’ente è lento, nella lentezza come nella fretta, quando non è trattato per l’appuntamento (in “Essere e tempo” M. Heidegger non ci aveva nemmeno pensato):
l’ente in sé non viene mai, pretende sempre di essere-e-basta, presente, non attende di essere-stato, cioè di esistere al futuro anteriore.
Tutta la patologia è ontologia di massa, anche in coloro che non hanno mai udito questa parola filosofica:
la bêtise di massa ha un punto d’incontro con la bêtise filosofica:
ho già fatto un cenno alla bêtise che Platone ha in comune con i prigionieri della sua sala cinematografica detta anche “caverna”.
L’entezza è culturalmente designata con precisione a livello di massa dall’espressione spietata, durissima e durissima a morire:
“Voglio essere amato per quello che sono”,
e tutto si ferma nella spirale infinita, sintesi odiosa di tutte le patologie, del dis-amore.
Il tempo dell’appuntamento decide della civiltà e dell’amore, come dire del pensiero.
Ma almeno, la patologia è la migliore critica filosofica dell’ontologia.
Bisogna correggere Cartesio in “cogito ergo adsum”, come suggeriva G. Genga tempo fa.
PS
Mi sembra di ricordare (con vera o falsa attribuzione) di avere attinto e tradotto da J. Lacan:
l’enteur-l’entezza,
ma non sarebbe la prima volta che gli attribuisco, come già a Freud, una trovata mia:
per esempio, mi è successo di attribuire a Freud l’osservazione e concetto di “rifugio nella guarigione” a fianco del “rifugio nella malattia” (conto di tornarci).
Milano, 28 aprile 2009