PLOT NO-END

Noi psicoanalisti non strologhiamo (domanda finale di “L’Edipo invertito”, venerdì 13 febbraio):
non ne abbiamo bisogno, basta che abbiamo e consultiamo il pensiero individuale già in atto in ognuno e ovunque, capace in proprio di pensare tutti i possibili plot, o forse combinatorie, che vivono del possibile ossia non gran che:
penso che basterebbe un buon programmatore per costruire un programma da computer capace di pensarle-calcolarle tutte (le nevrosi, che sono plot), con la scarsa intelligenza dell’intelligenza artificiale.

Noi non strologhiamo:
siamo illuministi quantunque di un Illuminismo ripensato, non occultisti; essoterici non esoterici; vedenti non visionari, udenti non allucinati; inizianti non iniziatici.

Ci pensa già il pensiero individuale a strologare tutta la tipologia(-patologia).:
come hanno potuto gli Psicologi di un secolo fa non accorgersi che la tipologia è patologia?

Plot significa complotto, congiura, trama (anche in senso letterario), in cui il malato è uno dei personaggi, congiurato anche lui benché obtorto collo.

La questione dei plot letterari, cinematografici, teatrali è se, come, quanto e quando si distinguono da quelli nevrotici, di cui di regola sono dei remake:
l’ultima eccezione storica che conosco è Shakespeare.

Nel pensarle tutte, il pensiero individuale è una Tavola di Mendeleev già tutta scoperta (su questo ritornerò).

La questione è:
esiste un ordine non-plot, non combinatorio, non tipologico, non patologico, non infernale?

Lacan poneva la questione provocatoriamente, chiedendo se la psicoanalisi avesse mai saputo inventare una nuova perversione (ovviamente no, tutto già fatto).

Lo slogan sessantottino “La fantasia al potere” era ignorante, perché ignorava che la fantasia (dei plot) ha poca … fantasia.

Poi questi plot si impongono all’individuo come fossero “istinti” (“sono fatto così”, fino a “la condizione umana” e via da Kierkegaard in poi).

Il rapporto sociale quotidiano è tra plot ambulanti (la psicoanalisi è l’eccezione, sempre meno eccezione):
ne è nata la monferrina (“manfrina”) esistenziale della solitudine.

In passato c’è stata la critica dello happy end:
ma l’errore era su ambedue i fronti, perché non si tratta affatto che lo end sia happy (parola che ormai respingo), bensì che ci sia end, fine come meta (lo Ziel freudiano), soddisfazione come conclusione logica e pratica.

I nostri plot non sono né happyunhappy:
sono no-end.

In essi si tratta di tutti i possibili a eccezione di uno, in principio.

Milano, 18 febbraio 2009

 

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