L’ERBA VOGLIO E LA CICUTA DELL’ISTINTO

Insisto dopo ieri (la banalità piccoloborghese).

Non c’è posto dove vado in cui ormai io non sia avvicinato da qualcuno o qualcuna che, in privato come se fosse una cosa tra noi, mi domanda se è proprio vero che l’istinto non esiste:
naturalmente, com’è giusto, gli giro la domanda, perché la Teoria dell’istinto è sua non mia.

In ogni caso sono marchiato, e ciò mi prova che sono arrivato al fondo, della mia vita così come dell’essere presupposto, la Somma banalità come il Sommo bene:
che è quello di cui non so niente, proprio come dell’istinto che mi sarebbe “dato”:
ecco la banalità, opprimente e sconfortante nonché mentita.

I Greci hanno trasfigurato la Teoria dell’istinto (indimostrata e indimostrabile), in Filosofia dell’essere,
in seguito alla quale “Dio” avrebbe asserito “Io sono l’Istinto” (Esodo):
cose da Sodoma e Gomorra, da Diluvio e Giudizio universale comico.

L’Idea di istinto – o di causa del pensiero e poi dell’azione – è la prima banalizzazione, la piccoloborghesia dello spirito, quella che solo poi inciderà maggiormente in certe classi dette “piccoloborghesi”, oggi “ceti medi”:
veleno nella minestra dei bambini, ideazione delirante indotta, è veleno anche nella minestra del figlio del Principe (figuriamoci “Il piccolo principe”, racconto massimamente piccoloborghese):
ecco perché la storia della Sovranità è sempre stata una storia di sovranità limitata e dubbia (rinvio al mio articolo sul profeta Daniele).

L’Idea di istinto inizia come cicuta dell’infanzia, indubbiamente già somministrata a Socrate bambino che poi, automatismo di ripetizione, se l’è fatta somministrare da grande.

Il mio vecchio amico Elvio Fachinelli ha fatto negli anni ’70 la Rivista “L’erba voglio” (in cui ho scritto), senza venirne a capo, e all’epoca neanch’io.

I millenni hanno assassinato il desiderio per mezzo della linea di demarcazione tra desiderio e volontà:
solo l’ottima, o semplicemente onesta, parola “voglia” gli rende giustizia, tutt’uno con ambizione, che la piccoloborghesia, tanto eterna quanto moderna, odia.

Due sono le solitudini:
quella infelice che discende dalla Teoria dell’istinto, imperativo senza rapporto la cui forma concettualmente perfetta è lo stupro;
e la felice solitudine della verità che non c’è istinto.

Questa verità è buona notizia o buona novella, perché è la notizia che il posto per il partner può venire elaborato, posto, dal singolo, cioè che il posto dell’altro può solo (ma questo non è un imperativo né una legge fisica, bensì una condizione logica) venire posto.

Senza asservimento alla Teoria dell’istinto non ci sarebbe psicopatologia.

Non so se si capirà questa aggiunta:
quando i Filosofi discettano paludatamente sulla “cosa”, replico che la loro non è cosa ma cosetta, robetta.

O quest’altra:
se “Ignorantia legis non excusat”, ed è vero, Freud sembra partito da essa, tanto da collegare alla rimozione il ritorno del rimosso, ossia una sanzione.

Milano, 19 dicembre 2008

 

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