“CHE GIOVA NE LE FATA …” (bis)

… dar di cozzo?” (Dante, Inferno IX, 97).

Noi liceali ne venivamo entusiasticamente sboccati:
bastava sostituire con “fate”, e l’altra parola veniva alle labbra con l’esattezza di una matematica incantevole, fairy
(non posso escludere, dopo le mie modeste ricerche etimologiche, che le due variazioni linguistico-goliardiche fossero già presenti nella lingua di Dante).

Del resto alle fate non piace che gli si dia di cozzo, nel quale caso si incozzano, e controcozzano anche peggio mettendo a mal partito (Erinni, Medusa), uomo e figli e mondo:
vittoriose nella pugna proprio in assenza del noto attrezzo, debile com’è per status, e ulteriormente debilitabile dalla donna incozzata.

Ed ecco la donna “fallica” che significa appunto incozzata, primariamente con la “o” e solo secondariamente con la “a” vanificante:
che significa solo
– senza i soliti “misteri” fallici per esempio pompeiani, utili alla cassetta sadomaso, ossia la donna che si fa donna solo nel masochismo –
sottrazione della differenza sessuale al rapporto, omologazione illogica del “logo” sessuale.

Ambedue perduti.

Sto rilanciando per l’ennesima volta la domanda:
“A che serve un uomo?”

C’è pure un’altra morale:
la domanda di Dante si apre anche sulla risposta che il fato o destino non esiste, e allora perché star lì a dargli di cozzo?

Milano, 3 dicembre 2008

 

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