PANICO DI COSCIENZA

Da economista sui generis quale ormai mi assumo
– ciò ha conseguenze: sono e resto psicoanalista, certo, ma che c’entra l’analisi della psiche?, idem l’essere giurista sui generis? -,
mi provo a dire qualcosa, solo per iniziare, su quel panico di cui tutti, giornali politici economisti privati eccetera, parlano.

Uno psicoanalista (sopporto ancora di chiamarlo così) non si occupa della “crisi di panico” se non secondariamente.

Tutti sanno che, anche nella crisi economica più grave, il panico peggiora le cose, anzi che è questo il momento più grave della crisi (distinguo panico e povertà).

Tutti diranno che in tempo di crisi non è il caso di stare sulle parole:
magari tutti lo facessero, almeno non sarebbero nel panico del “fare”, una parola questa che quando assume il primato è il fondamentale del panico stesso,
nonché dell’angoscia, ma mi correggo: del senso panico dato all’angoscia.

Vero che la parola “panico” prende a prestito dal dio Pan, ma ciò appare contraddittorio:
infatti è un dio agreste, arcadico, bonaccione, pacioccone, e anche coureur de femmes benché bruttino o almeno bizzarro, ma neanche se la prende se spesso le damigelle si ricusano:
insomma non è brutale, vendicativo, malvagio, e tanto meno un terrorista, né maneggia folgori come Zeus.

Insomma Pan non ci sta con “panico”, che sembra piuttosto un ossimoro:
non lo sembra, lo è:
ho scoperto che è l’ossimoro della coscienza, così come fino a oggi la conosciamo.

Questa scoperta mi deriva dall’avere dato rilievo solo recentemente a uno degli attributi perfino comici di Pan:
è il dio della siesta, o pennichella, proprio così, senza scherzo:
rammento che la siesta è pomeridiana cioè diurna, non sonno notturno:
ebbene, il mitografo (Robert Graves) annota che, se disturbato nella siesta, Pan terrorizzava tutti con le sue urla, il panico appunto.

É ciò che accade con la coscienza:
non quella che nel sonno va a dormire, e lascia che io lavori pacificamente di pensiero;
non quella (caso rarissimo) che, nella veglia, veglia come ancella del pensiero, e attende le articolate prudenti indicazioni di questo prima di agire;
bensì quella che dormiveglia sempre e che, se svegliata che per lei significa disturbata, a corto di pensiero com’è sa soltanto passare all’azione immediata, un’azione che altro non è che urlo:
in altre parole ritira, disinveste, all’occorrenza uccide, e quando vuole darsi un contegno organizza il terrore.

La coscienza che ci è “familiare” è quella del disorientamento, del venir meno del pensiero:
mi correggo, è quella del venir meno al pensiero:
è un caso di infedeltà, perfino disobbedienza.

In subordine sarà poi facile parlare della “crisi di panico”.

Milano, 9 ottobre 2008

 

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