PRETI

Dei preti parlerò anche un’altra volta
– anche se ricordo di averlo già fatto di passaggio a proposito del clericalismo non confessionale -:
per ora un semplice rilievo critico per loro, verso i quali ho sempre avuto e ho affetto e rispetto.

In misura marcata nell’ottocento e novecento, essi si sono preoccupati di insegnare alla “gioventù” (in genere maschile) a essere “buoni”, anziché a curare la vigna, vendemmia inclusa, seguita dalla vinificazione.

Succintamente, “buono” è un imperativo nevrotico-ossessivo, “superio”.

Ma non sono affatto contrario a questo aggettivo e predicato:
però accetto di predicarlo non per l’ente (bonum et ens convertuntur, Tommaso d’Aquino) bensì solo, o meglio anzitutto, per il produttore, non importa di che:
i preti dovrebbero saperlo dalla parabola dei talenti, da quella del figliol prodigo (produttore del bene di conclusioni corrette intorno all’esperienza dell’errore), dalla parabola del fico (produttore di fichi), eccetera:
diciamo così, il fico (albero, ente) non vale un… fico se non vale fichi.

L’ente vale sì, ma come materia prima:
il bene dipende dal lavoro (e non finisce qui).

Milano, 15 luglio 2008

 

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