É la morale delle mani addosso, quella di Taras Bulba (N. Gogol) che proclama al figlio:
“La vita, come te l’ho data così te la tolgo”, segue sangue che cola.
É una morale tanto crudele quanto stupida (logicamente), perché non esisteva alcun “tu” cui potesse dare la vita.
Ma il delitto di Taras è minore (da cosaccone un po’ bestia) di quello più diffuso e generalmente giustificato:
il mettere le parole addosso:
sta in questo la generale e “normale” violazione del principio di habeas corpus:
una violazione approvatissima dalla nostra cultura, in particolare psicologica (“madre-bambino”) e pedagogica, e dalle vittime stesse.
Vero che, nella prima infanzia, i genitori mettono “le mani addosso” al bambino (la madre più spesso, ma anche il padre) nelle pratiche più innocue (lavarlo, vestirlo, imboccarlo, medicarlo, vezzeggiarlo),
ma da qui inizia un’autentica truffa:
il passaggio al mettergli le parole addosso con la menzogna di una omologia:
ed ecco i “Tu sei…” predicativi che il bambino si sente predicare addosso, senza difesa.
Il passaggio dalle mani alle parole dà il modello della violenza civilizzata, e inapparente solo per chi non vuole vedere ciò che è perfino appariscente.
Ma quella di Taras Bulba era già la violenza delle parole addosso, ossia la frase di Taras.
Da adulti giustifichiamo la violenza del mettere le parole addosso:
sia attenuandola nella moderata fattispecie dell’“indiscrezione”,
sia giustificandola nella fattispecie amichevole della “confidenza” (“diamoci del tu”, “siamo amici”).
In paragone risulta relativizzata la pedofilia come reato minore, perché perlomeno non mette le parole addosso.
Non conosco fonte maggiore di danno individuale e collettivo, sempre economico (la psicologia è economia):
danno monetizzabile.
Milano, 16 luglio 2008