Qualcuno da me ha fermato l’attenzione sulla sua facile e immotivata commozione nel pensare a sua madre, o nel parlarne:
alla domanda da dove provenisse, gli ho suggerito che soffriva di mal di ma(d)re:
interpretazione facile, tutti soffrono il mal di ma(d)re, anche i marinai più navigati (“ai naviganti intenerisce il core”).
Lo riscontriamo nella letteratura più antica, così come nella canzone lacrimosa ossia commossa (“Son tutte belle …”), e nel film parricida (“Kill Bill”).
Se c’è una Teoria, è quella da cui deriva per deduzione (efficace-corporale) la commozione da mal di ma(d)re:
le madri ne sono le prime vittime, che poi fanno vittime, anzitutto i figli come seconde vittime.
Come Medea, ma con una differenza fondamentale:
lei asserisce come primario il rapporto con l’uomo, ed è perché tradita nel rapporto (non nel far sesso) che sanziona (vendicativamente):
mentre nel mal di madre è asserito come primario il “rapporto” (delirato) con il figlio (“mamma-bambino”):
questo delirio sta a rimpiazzare il rapporto tradito, se mai è stato istituito.
Penso che il femminismo avrebbe dovuto occuparsi delle madri vittime, poi militanti:
ma avrebbe dovuto rispondere alla domanda “a che serve un uomo?”:
benché dapprima abbia risposto che non serve a niente (storico):
pur non dicendolo, lo pensano o almeno sospettano anche molti uomini, tra i quali quelli duri-e-puri.
La Teoria delle emozioni primarie teorizza le commozioni secondarie.
Milano, 30 aprile 2008