Diceva un mio maestro che le mamme non mettono il veleno nella minestra del bambino:
concedo che il cianuro solitamente no, ma c’è un altro veleno micidiale.
A tavola, un bambino intorno agli otto anni domandò al padre di fargli assaggiare il suo caffè, ma la madre si ingerì predicendo
– e solo dopo molti anni il bambino capì che non di predizione si trattava ma di minaccia, e capì altro ancora a proposito dell’ingerenza indebita, dato che il padre non era uno sprovveduto né uno sciagurato –
che a causa del caffè non avrebbe dormito.
Ottenuti pur sempre dal padre due miti cucchiaini della bevanda, quella sera stentò a prendere sonno in obbedienza alla “predizione”:
l’indomani, pensandoci, ebbe una benefica resipiscenza di cui i bambini sono capaci, ossia si chiese se fosse diventato improvvisamente stupido:
da quel giorno non ha più avuto disturbi del sonno neppure dopo fiumi di caffè.
In quel caso l’antidoto, la facoltà di pensare, è stato il padre, per non essersi lasciato rimuovere dalla predizione materna.
In quel caso il bambino ha saputo pensare la stupidità della Teoria, ma non ancora il veleno, veicolato dalla Teoria, della minaccia (dell’angoscia per perdita dell’amore, che fa credere qualsiasi cosa).
Non sto affatto formulando come legge che le madri sono patogene
– ma c’è una Teoria psicoanalitica che la formula -,
bensì che, quando c’è patogenesi, in questa c’è una divisione del lavoro tra agenti diversi, tra i quali un agente istituzionale extrafamigliare, e che alle madri tocca di regola un certo ruolo (dunque attenzione ai ruoli), e ai padri un altro e complice:
all’effetto patogeno occorrono tre complici.
Lascio a ciascuno di cogliere, con carta e matita, l’enormità del disegno di questo “piccolo” esempio.
Milano, 25 aprile 2008