La metafisica è una cosa troppo seria per lasciarla ai metafisici di professione.
L’espressione triviale “sangue da una rapa”, aldilà della sua contumelia contiene una verità, quasi quella di “vino dall’uva”: vi si tratta di produzione meta-fisica, e di metafisica come produzione.
Ricordo che anni fa in un’azienda vinicola piemontese fu promosso un simposio, una cena-conversazione, tra persone variamente impegnate, intellettuali, professionisti diversi, artisti. L’azienda era gestita da intellettuali che avevano impresso questo mutamento alla loro vita.
Nella discussione qualcuno (per la precisione il sottoscritto) sostenne – ottenendo reazioni molto contrastanti tra loro – che si ha un bel dire che il vino è tanto più buono quanto più é “naturale”, perché proprio il vino è un eccellente esempio del meta-naturale rispetto al fisico o naturale (i gestori dell’azienda erano inferociti con me, perché la “naturalità” del loro vino era il loro slogan commerciale).
Recentemente (“Il club dello champagne”, 19 gennaio) ho addotto anche l’esempio dello champagne come un’escalation nella già metafisica del vino.
Il vino (aiutiamoci pensandolo come quello delle metafisiche figlie incestuose di Lot) è nato nel momento non naturale in cui qualcuno ha pensato che dalla rapa dell’acino potesse generarsi qualcosa, il vino appunto, che non era affatto implicito né potenziale nell’acino: più il processo lavorativo materiale, ma ricordando che il pensiero stesso è già lavoro (la patologia è rifiutarsi al lavoro di pensiero).
Il vino non è natura bensì neoformazione della civiltà (come la ruota o la benzina, che non è affatto un derivato naturale del petrolio, benché senza petrolio non si possa fare).
Dopodiché si osserva che anche la metafisica può commettere errori, come quello di derivare sangue dalle rape: come sarebbe bello se l’errore si riducesse tutto alla nota sciocchezza!, mentre il sangue dalla rapa è solo una metafora della perversione, diversamente dal vino come derivato dell’uva.
Ho assistito cento volte al celebre gesto filosofico del filosofo realista: fieramente in piedi dietro la Cattedra, dava una grande manata sulla medesima affermando con foga avvocatizia “Questo è un’evidenza!”
Non che io ne dubitassi, ma quel gesto trascurava l’evidenza dell’evidenza, ossia che il tavolo o cattedra non è natura ma prodotto formale del lavoro: la realtà-realtà è il tavolo, non la materia ancora indifferente (legno, ferro, pietra, plastica…) con cui è costruito.
Il Dio biblico stesso è un metafisico: non lo è per avere creato, ossia per avere messo lì qualcosa aldiqua di sé stesso, ma per avere generato ossia aldilà di sé stesso.
Per i Greci il lavoro era servo, al massimo salvavano un po’ il vaso dell’artigiano: lasciavano servo il pensiero, cioè noi asserviti alla loro metafisica nemica del lavoro.
Idem per i sessi: la loro esistenza umana è puramente metafisica a partire da acini, anche se poi se ne è fatto rape da cui far colare il sangue: la perversione è anch’essa metafisica, non natura deviata.
La vergogna di tutte le morali è quella di trattare la sessualità come natura, con il mistificatorio e perfino delirante pseudoconcetto di “istinto”.
Ripeto l’inizio, che la metafisica è una cosa troppo seria per lasciarla fare ai metafisici di professione, che ce ne derubano: basta scoprirla come pratica quotidiana di tutti fin da bambini, nel bene o nel male.
Milano, 8 marzo 2007