Vita è pensiero: un semplice accento (“è” invece che “e”, tutt’altro che l’“essere o non essere” di Amleto) fa tutta la differenza tra la vita e la morte:
il corpo morto (corpse in inglese) è tale perché non ha più pensiero, questo non anima più un body.
C’è corpo, non cadavere, quando il pensiero lo anima, ne legifera la legge.
La distinzione tra anima e pensiero, la più antica vessazione dell’umanità, deve cessare.
Ma non penso che cesserà, se non nel pensiero di alcuni: se vogliamo sperare, è meglio ripartire dal disperare, o dal cessare di pensare la speranza come un bisogno.
La psicopatologia, aldiqua della morte, è l’incertezza del pensiero in quanto legislativo (come si dice “incertezza del diritto”), il suo dis-orientamento istituzionale, il suo smarrimento o perplessità.
Presenza o assenza dell’accento è l’alternativa della Civiltà (non ricito Freud).
Per caricare i toni: che me ne farei di un’eternità da morto?, o di una resurrezione da idiota assoluto?, ossia con un corpse delirato come intatto di cui viene dolosamente o almeno sarcasticamente delirata un’anima?
Faccio lo sconto a Platone: era un sarcastico, forse non proprio doloso, in ogni caso un tentatore, ma di successo.
Milano, 15 febbraio 2007