“SOFFRO”

Posti di fronte a una simile dichiarazione, siamo messi alla prova più grave, la tentazione per il pensiero: ecco il senso di “non ci indurre in tentazione”, una prova insostenibile.

É tutta la Cultura a fare pressione contro le nostre fragili difese.

Fragile è il nostro gusto per la verità, anche e soprattutto nell’uso più corrente di questa parola, senza biechi svolazzi ideali nella V maiuscola dei Filosofi.

Questa dichiarazione è moneta – spesso falsa – corrente, e noi ci prestiamo ad essa come tanti Pinocchi di tanti Gatti e tante Volpi.

Moneta corrente specialmente nella psicopatologia: l’isterico, il perverso, lo schizofrenico, il paranoico, il “depresso”, soffre?, il genitore di figlio autistico soffre?

E poi c’è la Teoria del “dolore di vivere”.

Ciò che osservo era già nelle prime osservazioni di Freud (captatio benevolentiae in nome della sofferenza).

Quella sul dolore è la menzogna più di base (come si dice “base popolare”) che io conosca.

Un po’ di verità sarebbe assicurata se fosse dichiarata l’angoscia, ma anche in questo caso divento esigente: la vera angoscia è raramente riconosciuta (come il senso di colpa), aldilà dei drammatismi delle “crisi d’angoscia”, o “di panico”, o dell’“angoscia libera”.

Per alleggerire, mi permetto un ricordo tenero unito a stima.

Mio padre, un intellettuale di rango benché sfortunato (auto-infortunatosi, insomma un bel nevrotico ossessivo), aveva un suo pacchetto di battute di spirito colte che ricordo sempre con piacere: in particolare, andava pazzo per il latinorum proprio perché il latino lo conosceva bene.

Tra le battute, forse d’epoca, figurava:
“Ella… s’offre!”

Milano, 20 gennaio 2007

 

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