Mondadori Editore ha pubblicato questo pocket che ho in mano di Bob Briner, “Gesù come Manager” (The Management Methods of Jesus): ne dico soltanto che lo trovo ben orientato, meglio di tanta predicheria religioso-buonistico-lacrimosa, nevrotico-ossessiva quando non sadica.
Mi sovviene una truculenta battuta anticlericale del passato, che parla di impiccare i preti con le loro budelle: iperbole comico-tenera spesso meritata, anche se io gioco in casa.
Sull’onda economico-giuridica di questo libro procedo a una breve esegesi della parabola detta del “figliol prodigo” (questa a me pare una pessima traduzione, infantilizzante e fuorviante).
Ho un ricordo ancora fresco del dipinto di Rembrandt all’Hermitage di San Pietroburgo: è splendido, ma non ne condivido la tradizionale esegesi buonistico-pauperistica, ossessiva.
Per cominciare, in molta predicazione si getta l’ombra del sospetto che quel figlio sia scappato con la cassa dell’azienda.
Nel testo egli farebbe causa per calunnia: infatti lui chiede solo la sua parte di eredità, e il padre, un imprenditore, gliela riconosce (in base a un Diritto di riferimento che non mi è noto).
Poi il figlio fa quello che fa, e di fatto fallisce, non importa se per abuso di orgia o per investimenti sbagliati in Borsa (congettura accettabile: anche nella parabola dei talenti si parla di capitale finanziario).
Allora ragiona, e arriva a due conclusioni:
1° che ha sbagliato, non senza colpa,
2° che era e comunque è bene fare una sola Azienda anziché frammentarla.
Forte di questi due saperi si ripresenta al Padre in quanto il principio dell’Azienda stessa.
Che cosa risponde il Padre? Non è un imbecille, fa il logico come già il figlio, non il “papà” tanto buono e amoroso verso lo sciagurato “figliolo” tanto “prodigo”, frivola idea di “perdono”.
La premessa del suo ragionamento è la constatazione che il figlio è tornato da un’esperienza internazionale forte di due competenze che prima non aveva:
1° la competenza nell’errore, colpa inclusa,
2° la competenza su qual’è la migliore politica aziendale: quella dell’unione e non della divisione.
Allora conclude, entusiasta del figlio, con il “vitello grasso”, non un piatto di minestra, un abito dismesso e una stanzuccia piano terra: e ciò significa soltanto che il figlio irrobustito diventerà, coerentemente, Presidente del CdA.
E doppiamente entusiasta del figlio, perché ne viene irrobustito lui stesso: infatti non c’è padre senza figlio, non c’è padre ideale se non per il peggio.
Il padre ha ritrovato un figlio scientemente figlio: perché ha il senso degli affari – meglio che se fosse di ritorno da un PhD in una High School of Economics -, degli affari del Padre come affari comuni, ossia universali; ha l’idea che esiste un solo affare complessivo (uno psicoanalista è operatore di un affare complessivo cioè riguardante tutti).
Sul padre, e il figlio, la storia del Cristianesimo è stata inadempiente, a parte la distinzione nicena tra genitus e factus, ossia l’inconsapevole e rimosso capolavoro della storia del cristianesimo.
Le pagine migliori sul padre, e sul figlio, le ha scritte Freud.
Ma qui sento digrignare i denti, e non solo dei credenti.
Milano, 18 novembre 2006